L’INCONTRO IMPOSSIBILE

Questa è la cronaca di un incontro che, forse, non si svolse mai anche se i protagonisti vissero negli stessi anni nello stesso territorio e, probabilmente si conoscevano, almeno superficialmente.

Su Dante è inutile spendere parole, Rinaldo (o Rainaldo, o Reinaldo) invece, merita di essere conosciuto meglio. Arcivescovo di Ravenna e, prima, Vescovo di Vicenza fu uomo di legge e diplomatico; svolse il ruolo di mediatore fra il re di Francia e il re d’Inghilterra, fu custode del riottoso re di Scozia, ma la sua fama è principalmente legata al processo contro i Templari dell’Emilia che mandò assolti non avendo trovato prove della loro colpa. Infatti egli, preliminarmente al processo, stabilì che “debbono essere considerati innocenti coloro per i quali è possibile dimostrare che hanno confessato solo per timore della tortura. E’ innocente anche chi ha ritirato la confessione estorta con la violenza oppure non ha osato ritirarla temendo di essere di nuovo torturato”. Dopo questa sentenza venne a poco a poco allontanato e isolato dalle dinamiche della corte pontificia. Si ritirò, vecchio, nel castello di Argenta ove morì un mese prima di Dante.

I due avrebbero, con ogni probabilità, dialogato in Latino. Per comodità mia e vostra lo presenterò in Italiano. Le frasi attribuite a Dante sono scritte in rosso, quelle di Rinaldo in blu.

Nell’anno millesimo trecentesimo decimo ottavo dalla nascita di Nostro Signore Gesù Cristo nel castello arcivescovile di Argenta.

“Eccellenza è arrivato”

“Fatelo entrare e lasciateci soli”.

Un uomo magro, ingobbito, con un gran naso adunco, la folta barba ben curata che nasconde le guance scavate si avanza nell’atrio scuro con passo strascicato.

Rinaldo, seduto alla scrivania, lo scruta. Seppure vecchio ha ancora una vista eccellente. Gli occhi dell’ospite  mantengono la stessa luce febbrile di allora quando, giovane, il giurista già affermato lo conobbe a Bologna.

Gli anni non sono stati clementi con Dante e la barba, un tempo nerissima, è “bianca per antico pelo” come quel traghettatore, Caronte che il poeta mette nei primi canti dell’Inferno.

“Eccellenza” Mormora Dante mentre si piega a fatica per baciare l’anello che gli viene porto.

“Su, figliuolo, alzatevi. Non troppe cerimonie fra di noi. In fin dei conti siamo due vecchi compagni di studio che si ritrovano e due vecchi che hanno scelto di combattere ed hanno perso. E sedetevi, vi sono scranni in abbondanza”.

“Parole troppo dure per uomini che hanno fatto scelte che hanno pagato io con l’esilio, Vostra Eccellenza con l’emarginazione”.

“Basta piangere, piuttosto parlatemi di voi; se la memoria non mi inganna è dal 1286, dai tempi di Bologna che non ci incontriamo. Voi eravate uno strano individuo, già poeta famoso cantavate l’amore spirituale, ma praticavate, e molto, quello carnale. Comunque eravate straordinario, conoscevate l’intera Eneide a memoria e vi piaceva recitarla intercalando quella sublime lingua latina ai vostri versi in volgare, certamente eccellenti ma che non possedevano la bellezza musicale del latino.

Permettete? “Vergine Madre, figlia del tuo figlio, punto estremo di eterno consiglio, alta e nobile più che creatura..” E vorreste dire, Eccellenza, che questa lingua non può rivaleggiare con il latino?

Certo, lingua bellissima, canzone sublime alla nostra Madre, ma tale solo perché è nelle vostre sapienti mani, altri compongono solo cose triviali e dissonanti dalle quali Calliope se ne fugge urlando..[1]

Indubbiamente voi siete in grado di dare dignità ad ogni idea con la vostra somma arte, ma avete esagerato: non si possono mettere i Papi all’Inferno!

Non io! Non io! Ma le loro azioni li condannano alla dannazione eterna! Loro hanno trasformato la Chiesa…

Basta! Non voglio sentire altro!

Scusate, Eccellenza, ma troppo profonda è la ferita dell’esilio per permettermi di essere misurato nell’esternare la mia amarezza. Voi eravate a Roma quando io vi fui trattenuto da Bonifacio VIII in modo che, al mio ritorno a Firenze, i giochi erano già stati fatti ed io non potei fare nulla per contrastare le infamanti accuse che portarono al mio esilio.

Ricordo. Era il 1301; io ero appena tornato dalla mia lunga missione in Francia ed ero impegnato in una tenzone giuridica con il senato vicentino, città della quale ero vescovo. Ebbi sentore della cosa, ma allora non ebbi il coraggio né la voglia di contrastare quella che, anche allora, mi parve essere un’ingiustizia. In ogni caso, anche dal punto di vista politico, fare esiliare il più grande fra gli intellettuali italiani era uno sbaglio che, alla lunga, avrebbe contribuito ad indebolire la posizione papale. Cosa che puntualmente avvenne.

Ti chiedo scusa ora, a distanza di tanti anni per non averti difeso, ma ero divorato dall’ambizione e dalla paura. La paura era non tanto per la mia persona, quanto, piuttosto, di vedere interrotta quella scalata nelle gerarchie che mi avrebbe portato ad avere sempre più potere e l’ambizione è già spiegata.

Mi sono pentito molte volte e quando sentivo della tua fama che cresceva sempre in Italia con lo stupore delle genti, nobili e popolani, ricchi e poveri per il grande poema che stavi scrivendo sul mondo ultraterreno, mi consolavo pensando che, forse, anche le sofferenze che avevo contribuito a farti infliggere avevano contribuito ad accrescere la tua arte e che, in un più grande disegno salvifico, forse il Nostro Salvatore aveva fatto della mia ignavia il Suo strumento per la tua grandezza.

Perdonatemi voi, Eccellenza, capisco e comprendo. Anch’io mi sento come fossi uno strumento del destino e che tutta la mia vita non avesse avuto altro scopo che realizzare un progetto divino.

Talora l’uomo, resosi conto della propria miseria, cerca di staccarsi dalle cose terrene. Per voi è stato uno rivivere Il viaggio che avete fatto nel mondo ultraterreno è una progressiva illuminazione dell’uomo che, le esperienze dolorose e trarre da esse principi universali, che finiscono, fatalmente, per travalicare la storia individuale per arrivare a sciogliersi nell’esperienza del Sommo Bene.

Il fatto che abbiate saputo fare tesoro  della grande ingiustizia che avete subito e trarre da essa ispirazione per comporre il sublime poema è per me, che allora girai lo sguardo dall’altra parte, fonte di consolazione.

Eminenza, queste parole mi commuovono. Vi chiedo perdono per non avere avuto fiducia nella vostra grandezza spirituale.

La seconda volta, però, non ho voltato lo sguardo dall’altra parte. Quando mi nominarono giudice istruttore nel processo dei Templari non rimasi stupito; in fin dei conti  ero il prelato di maggiore prestigio e, certamente, più competente in affari giuridici di tutta l’Italia a nord degli Appennini.

Avevo conosciuto, in Francia, Filippo il Bello: uomo pericoloso, spregiudicato e con una sete disperata di potere e conobbi anche, quando non era ancora salito al soglio di Pietro Clemente V; si trattava di un giovane mite, retto nei principi, ma debole di animo e non in grado di opporsi ai voleri del re. Se lasciato solo avrebbe certamente ceduto alle richieste, anche se ingiuste, del re. Già… Filippo dimostrò il suo disprezzo per la figura del Papa con i maltrattamenti ai quali venne sottoposto sua Santità Bonifacio VIII ed il fatto che la sede papale fosse stata trasferita ad Avignone ed il Papa fosse francese facevano dubitare che il giudizio sarebbe stato equanime.

Voglio essere chiaro: non mi piacciono i grandi Ordini monastici che badano soltanto ad accrescere le proprie ricchezze dimenticando, spesso, la missione spirituale che fu alla base del proprio agire; a Ravenna sono intervenuto con la massima energia per obbligare i Camaldolesi di Sant’Apollinare in Classe a riaprire l’ostello. I beni della Chiesa sono dei poveri.

Quindi non vedevo nel ridimensionare il potere economico dei Templari nulla di male, ma furono le accuse assurde ed infamanti che vennero rivolte a loro che risultarono repulsive al mio senso di giustizia. Per quanto ne so anche voi foste accusato di pederastia e, se ben ricordo, nulla è più lontano dalla vostra natura…

Entrambi accennano ad un amaro sorriso.

Quando li ebbi davanti vidi solo dei vecchi tremebondi; alcuni erano così deboli di mente da non essere in grado di dire neppure i loro nomi e, a maggior ragione, non comprendevano le accuse. Coloro che riuscivano a comprenderle le trovavano semplicemente incredibili. Si chiedevano quale mente diabolica avesse mai potuto immaginare quel cumulo di fantasie perverse e, ancora di più, li stupiva che qualcuno gli desse credito. Ma erano deboli, timorosi. Certamente quei vecchi avrebbero confessato qualsiasi cosa sotto tortura, probabilmente, per i più deboli, sarebbe bastato il carcere. Allora decisi di fare, almeno questa volta, la cosa giusta. Se per ignavia avevo  abbandonato Dante Alighieri ad un ingiusto esilio, avrei fatto quanto era in mio potere per impedire che un simile sbaglio avesse a ripetersi. Parlo di sbaglio, non voglio aggiungere altro. Già troppo ho detto.

Mi ritirai in preghiera, pregai e digiunai perché Dio mi ispirasse e mi facesse strumento della Sua giustizia, pregai per avere il coraggio di oppormi prima e di resistere poi contro il re, la curia francese e i suoi tanti alleati, pregai per essere illuminato nelle prove che, ero certo, avrei dovuto affrontare dopo il processo. Pregai di mantenere sempre serenità di giudizio.

A questo punto indissi un incontro a Ravenna fra me, che ero il giudice capo, e gli altri tre vescovi che erano stati individuati quali giudici dei Templari, ma io ero a loro superiore e, malgrado dubbi e perplessità, riuscii a imporre la mia linea basata sull’esame delle prove e alla prudenza.

La luce che filtra dalle tende alle spalle di Rinaldo ne ritaglia la figura austera e Dante guarda turbato quel vecchio che era venuto a salutare solo per dovere di cortesia e che ora sente così vicino. La voce di Rinaldo è flebile, talora quasi incomprensibile, il respiro diventa affannoso quando si emoziona. E’ l’ombra dell’uomo austero ma arguto che aveva conosciuto a Bologna; non sono solo gli anni ad averlo segnato, ma anche le vicende della vita.

E Cristo mi illuminò; pensai al Suo martirio, al sangue versato per la nostra salvezza. Dovevo fare il possibile per evitare un’ingiustizia. Così feci.

Adesso sono troppo stanco. Penso che anche tu sia stanco. In fin dei conti non sei più giovane. La tua stanza è pronta ed ho fatto approntare una decorosa sistemazione per i tuoi accompagnatori….

A domani.

[1] Calliope era la musa della poesia